
Rothko dichiarava di voler realizzare “dipinti che non vorresti guardare”. Jung, parlando dell’Ombra, scrive che verso di essa non vogliamo volgere lo sguardo. Ci sono parentele evidenti tra l’arte astratta e l’Ombra.
Ho iniziato la mia ricerca sull’esperienza estetica più di dieci anni fa, ipotizzando che lo spettatore provi sensazioni corporee diverse a seconda della qualità formale della superficie pittorica.
A volte lo stimolo visivo viene accolto, altre volte viene respinto, e questo dipende da molteplici variabili. In particolare, da una: quando sono presenti molti elementi formali, l’opera genera una sensazione di caos, di instabilità; al contrario, quando il dipinto si presenta meno carico, nel fruitore emerge un vissuto di maggiore equilibrio.
Talvolta si può perfino riscontrare una sintonia con il mood dell’autore, ma questa è un’altra storia. Chi fosse curioso di approfondire può trovare il mio lavoro completo pubblicato su questa rivista.
Nel tempo ho avuto l’opportunità di ampliare questa ricerca, affiancando al linguaggio della psicofisiologia clinica quello della psicologia del profondo.
Partendo da un dato osservato: di fronte a dipinti percepiti come “difficili”, sul piano fisiologico lo spettatore manifesta un irrigidimento muscolare che impedisce un dialogo con l’opera.
Da qui, ho iniziato a percepire una somiglianza tra questo tipo di arte e la descrizione che Jung fa dell’Ombra.
L’Ombra rappresenta l’insieme delle caratteristiche nascoste, sfavorevoli, incomplete. È l’aspetto oscuro, irriconosciuto, che esercita un’influenza inquietante.
Personifica ciò che non vogliamo riconoscere, eppure ci insegue con tenacia. È qualcosa di vero che la coscienza tende a respingere, ma che una parte più profonda di noi riconosce: dice “sì” proprio davanti al “no” della coscienza.
È materia prima, ubiquitaria. Si trova ovunque, nella quotidianità: vile nelle apparenze, disprezzata, rifiutata, gettata. Eppure, proprio sotto questo involucro di scarso valore, si nascondono contenuti essenziali.
La dialettica con l’altro — dentro e fuori di noi — è strettamente connessa al processo di individuazione e alla pratica della psicoterapia.
Confrontarmi con un’opera che “offre disgregazione” diventa così la metafora di un passaggio obbligato e propedeutico all’integrazione: un’operazione unificante che ricerchiamo, pazientemente, nella vasca analitica, attraverso uno sguardo binoculare.
Un occhio rivolto all’esterno, e uno sguardo azzurro, che guarda dentro.
La figura viva ha bisogno di ombre profonde per apparire plastica: come ogni corpo, anche il nostro proietta inevitabilmente un’ombra. E in sua assenza, saremmo piatti e inconsistenti, parziali — oppure, come dice Jung, “un bambino più o meno ben educato”.
Bene e male sono entrambi necessari, promotori dell’esistenza, attributi del chiaroscuro della vita (Jung, 1994).
Stabilire un’unità con l’Ombra significa dire sì all’istinto.
L’incontro con se stessi passa prima di tutto attraverso l’incontro con la propria Ombra — e prima o poi, con lei dobbiamo saldare il conto.
L’unico modo per confrontarci con l’Ombra è fermarsi e chiedere:
Che cosa vuoi da me?
Se non siamo in contatto con questa nostra parte, rischiamo di caderci dentro. Se non viene curata, educata, redenta, si perde la distinzione tra interno ed esterno.
Eppure, nella nostra cultura manca spesso un’educazione profonda alla gestione del negativo.
“L’uomo senza Ombra è il tipo d’uomo statisticamente più frequente, che vaneggia di essere soltanto ciò che preferisce sapere di sé” (Jung, 1994, p. 225).
Non è raro, infatti, che alla perfezione apparente corrisponda un’Ombra mostruosa.
La coscienza è, in un certo senso, sopra; l’Ombra, sotto. E poiché ciò che è in alto tende sempre verso il basso, così la coscienza cerca la sua antitesi e vi propende — come per una sorta di gravità psichica.
In fondo, le immagini che non vogliamo guardare, quelle che ci fanno ritrarre o che ripudiamo, sono proprio le stesse di cui non possiamo fare a meno se vogliamo vivere in modo autentico, profondo, multidimensionale.

È come una gola montana, una porta angusta, al di là della quale si trova un’illimitata distesa di me e altro da me, quel mondo di oscurità primitiva in cui può apparire tutto ciò che caratterizza il briccone, l’affentheather – il teatro di scimmie, somma di tutte le qualità inferiori (C.G.Jung).
A sinistra: Jackson Pollock, The deep

L’arte astratta allude a un significato ignoto, trasmette un senso di estraneità e confusa irriconoscibile molteplicità. È ciò che l’artista, e noi, non possiamo esprimere, il familiare-non familiare, il perturbante (Freud, 2012/2019). Queste immagini estranee, hanno il carattere della lacerazione, che si esprime con le linee interrotte, inconstanti, tagli di rifiuto psichico, scissione in frammenti, avanzi, rottami, brandelli, elementi disorganici (Jung, 1932/1998).
A sinistra: Scultura Inuit, Il cantastorie (in Kalshed, 2013)
Alcuni riferimenti
Freud, S. (2012). Il perturbante. In Il disagio della civiltà e altri saggi. Bollati Boringhieri. (Originariamente pubblicato nel 1919).
Hillman, J. (2013). Psicologia alchimica. Adelphi. (Originariamente pubblicato nel 1983).
Jung, C.G. (1998). Picasso. In Opere Vol. 10/1: Civiltà in transizione. Il periodo fra le due guerre. Bollati Boringhieri. (Originariamente pubblicato nel 1932).
Jung, C.G. (1994). Opere Vol. 8: La dinamica dell’inconscio. Bollati Boringhieri.
Kalshed, D. (2013). Il trauma e l’anima. Moretti&Vitali.
Venturi, R. (2007). Mark Rothko. Lo spazio e la sua disciplina. Electa.
Jackson Pollock, The deep, 1953. Image By (C) ADAGP, Paris – Photo (C) Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Palais / Georges Meguerditchian
“Tutta l’arte veramente originale sembra orrenda al primo sguardo” C.Greenberg
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