Psicoterapia | Principianti e in buona salute

I’m an absolute beginner / And I’m absolutely sane”, cantava David Bowie, riferendosi forse alla fiducia in sé stesso, alla fede nella propria creatività poliedrica.
Immagino così la terapia: come un luogo in cui inaugurare, amplificare e custodire la fede verso noi stessi.

Ma cosa può creare una persona che non è un artista come Bowie?
Jung suggerisce un’alternativa: quando non hai nulla da creare, crei te stesso.

La terapia è uno strumento — uno tra i tanti — al servizio della riscoperta e della costruzione di sé come vocazione. Iniziare a “corrispondere sé stessi” è sinonimo di salute psichica, perché inaugura un processo di consapevolezza e di apertura alle possibilità.

In questo percorso, l’altro è indispensabile: le relazioni sono quelle terre di mezzo in cui le spinte creative prendono forma e diventano vivibili.
In terapia, ad esempio, il rapporto tra paziente e terapeuta diventa un contenitore abbastanza capiente da accogliere vissuti anche apparentemente molto distanti tra loro. James Hillman descrive la reciprocità con parole insostituibili:

“Jung disse che possiamo andare con un altro soltanto fin dove siamo andati con noi stessi. Questo significa anche che possiamo andare con noi stessi soltanto fin dove siamo andati con un altro.”
(Hillman, 2012, p. 39)

È importante però non letteralizzare l’affermazione di Jung, che presumibilmente non intendeva dire che bisogna essere settantenni per stare in relazione con un settantenne.
Hillman, rovesciandone il senso, mette in luce l’attitudine psicologica al contatto intra- e interpersonale: più riesco a stare in relazione e ad assimilare l’altro — l’inconscio, lo straniero dentro di me — più posso accogliere anche l’altro fuori da me.

Il terapeuta, mentre contribuisce alla trasformazione (senza voler cambiare l’altro), scopre insieme al paziente gli infiniti modi di coinvolgersi.

La ricerca dell’autenticità è un’esplorazione tutt’altro che semplice.
Bowie canta poeticamente questa tensione tra due atteggiamenti tanto diversi quanto necessari alla scoperta: da un lato, il bisogno di tenere gli occhi completamente aperti, per cogliere ogni ispirazione; dall’altro, il “nervosismo”, l’arousal costante che deriva da una simile iper-stimolazione:

“With eyes completely open / But nervous all the same” (D. Bowie, 1986).

Siamo guidati da un impulso creativo incessante, destinati alla ricerca di un senso di realizzazione e completezza che, tuttavia, può diventare anche fonte di sofferenza.
Perché implica il desiderio — talvolta spasmodico — di un’esplorazione inesauribile.

La terapia, come relazione prototipica, è uno spazio in cui scoprire la spinta creativa, riconoscere i bisogni dell’anima, coltivarli e offrirgli un recipiente.

Tempo fa, durante una pausa di lavoro, chiesi a una collega dove svolgesse le sue supervisioni. Con mia grande sorpresa rispose: “Io non vado più in supervisione!”

Forse si sentiva “arrivata” per ottime ragioni. Ma io la penso diversamente.
Ho l’impressione che l’attitudine psicologica necessaria per stare davvero con l’altro sia quanto di più distante esista dalla figura dell’esperto, troppo spesso inflazionato dal proprio sapere.

Mi risuona molto di più l’immagine dell’esordiente: qualcuno “sufficientemente” sicuro di sé, come un bambino curioso, ispirato e insieme inquietato dal rapporto con l’altro.
Perché è proprio quella relazione che gli consente di rischiare, di crescere, di sperimentare l’unicità, di conoscere i propri limiti, ridimensionarsi — e, così facendo, rimanere “absolutely sane”.

Alcuni riferimenti

David Bowie. Absolute beginners. 1986. Virgin Records; Hillman, J. (2012). Il mito dell’analisi. Adelphi (originariamente pubblicato nel 1972); Hillman, J. (1999). Puer aeternus. Adelphi (originariamente pubblicato nel 1964); Polster, E., Polster, M. (1986). Terapia della Gestalt integrata. Giuffrè (originariamente pubblicato nel 1973).

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